17 marzo 2012

Il boom della "sensibilità" al glutine ma a soffrire davvero è il portafoglio

L'articolo di uno specialista italiano su una rivista scientifica riaccende il dibattito sulla "falsa celiachia" dietro la quale prospera il business degli alimenti senza glutine. Gino Roberto Corazza: "Non dico che non esiste, ma non c'è alcuna evidenza scientifica"

di ElVIRA NASELLI
Si chiama "gluten sensitivity", sensibilità al glutine, ed ha poco a che vedere con la celiachia. Non esiste test per individuarla, i sintomi riferiti dai pazienti sono molto variabili, da meteorismo, diarrea, dolori addominali, emicrania, ad altri sintomi non addominali, come apatia e altro. Tutti sintomi che - secondo i pazienti - migliorano con una dieta aglutinata.

Il punto, però, è che negli Stati Uniti, ma anche nel nostro paese, la gluten sensitivity è diventata di moda: ne parlano riviste online, gruppi sui social network, ricercatori. Persino sportivi, attrici come Gwyneth Paltrow o anchorwomen come Oprah Winfrey, che non risultano celiache, hanno dichiarato di aver scelto la dieta gluten free e di sentirsi meglio. Il risultato è che milioni di persone, senza alcuna conferma medica, si sono convertiti al senza glutine. Con un impatto economico non indifferente sulle loro tasche - considerato il costo elevato dei prodotti - e soprattutto il rischio di un possibile ritardo di una diagnosi di celiachia.

Il sasso è stato lanciato da uno dei maggiori esperti della malattia celiaca, Gino Roberto Corazza, autore di oltre 400 studi internazionali e direttore della prima clinica medica del San Matteo di Pavia. Un sasso autorevole, visto che si tratta di un articolo pubblicato sul prestigioso Annals of Internal Medicine, che ha scatenato un ampio dibattito negli Stati Uniti, dove 17 milioni di americani si ritengono sensibili al glutine e tra il 15 e il 25 per cento vorrebbe
alimenti gluten free. Contro una statistica di malati che non supera l'1 per cento.

"Nella mia lunga esperienza clinica - premette Corazza - ho fatto e anche smentito molte diagnosi di celiachia. Alcuni di questi pazienti, anche se non celiaci, riferivano di star male se mangiavano glutine. Per questo non dico che non esista la sensibilità al glutine, ma che sono scarse le evidenze scientifiche. Inoltre non credo che le persone sensibili al glutine siano davvero il 6% della popolazione, penso possano essere addirittura meno dei celiaci. Il glutine è una molecola difficile da maneggiare per il nostro organismo e può provocare difficoltà digestive anche nell'individuo normale: è indispensabile studiarne l'impatto fisiologico sugli individui normali e invitare tutti alla massima cautela scientifica e clinica".

L'autoprescrizione della dieta, infatti, da parte dei pazienti che provano sintomi generici e credono di essere sensibili al glutine ha, come primo effetto, un impatto non indifferente sul loro portafoglio: 200 grammi di merendine costano 3 euro e 80, 150 grammi di cracker 3 euro e 99, un chilo di lasagne gluten free 16 euro.

"A maggior ragione per questi pazienti è necessario un approccio diagnostico personalizzato - continua Corazza - il ricorso al doppio cieco è fondamentale. Funziona somministrando una dieta con e senza glutine, ma il paziente non sa quale delle due sta seguendo. È nelle situazioni più sfumate che serve più competenza, per questo è fondamentale ricorrere a uno specialista ed evitare l'autoprescrizione della dieta".

Il punto infatti è quello della diagnosi obiettiva. "Non esiste un test né in Italia né nel resto del mondo che possa diagnosticare la gluten sensitivity - premette Antonio Di Sabatino, anche lui al San Matteo e coautore del lavoro su Annals - mentre la celiachia si conferma con la biopsia intestinale e la ricerca degli anticorpi nel sangue".

La diagnosi di sensibilità al glutine si basa soltanto sulle sensazioni del paziente. I malesseri, però, in genere con la dieta senza glutine spariscono. Un caso? "Entra in gioco non solo l'effetto placebo, che ha una durata limitata - conclude Corazza - ma anche l'effetto nocebo, ovvero la reazione indesiderata e patologica che un soggetto prova nei confronti di una sostanza che ritiene sia dannosa. Dunque, se la sostanza viene esclusa dalla dieta, si sente - o crede di sentirsi - meglio".

(Repubblica.it)

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