18 aprile 2012

La donna che ha abortito 15 volte in 17 anni

Irene Vilar: la donna che ha abortito 15 volte in 17 anni. La sua vita in un libro di memorie
In America il libro scritto da Irene Vilar ha suscitato (comprensibilmente) numerose polemiche. La donna infatti si è dichiarata “aborto-dipendente” e all’interno de libro/autobiografia “Impossible Motherhood: Testimony of an Abortion Addict” ha confessato di aver interrotto ben 15 gravidanze in 17 anni. Quando si parla di aborto si tocca un tasto delicato in cui, se non direttamente coinvolti, non si può esprimere un’opinione. Ma in questo caso mi chiedo cosa possa essere scattato nella mente di questa donna che ora ha 40 anni? Un aborto segna una donna non solamente fisicamente ma anche e soprattutto psicologicamente.
Nel libro la donna afferma di aver abortito non per povertà ma per fare un dispetto al primo marito ritenuto colpevole di averla addirittura ossessionata per scongiurare la nascita di figli.

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Queste le parole della donna

Si vantava della brevità delle sue relazioni, che non hanno mai superato i 5 anni. Diceva che avere bimbi uccide il desiderio sessuale

Per questi motivi “mi dimenticavo ‘per puro caso’ di prendere la pillola. E poi abortivo per non farmi lasciare da lui. Certamente questo non significa che io volessi rifarlo a oltranza. Anche un tossicodipendente si vuole fermare ogni volte. Molte donne hanno scritto libri per raccontare le loro esperienze con l’anoressia o con la bulimia e motivare i loro comportamenti. Nel libro faccio la stessa cosa con l’aborto”

Il manoscritto prima di essere accettato da Other Press sarebbe stato rifiutato da altre 51 case editrici. Forse Other Press ha pensato che da una storia drammatica come questa potesse nascere un “bel” caso letterario destinato a fare scalpore e far parlare (nel bene o nel male).

La donna ora è sposata con un altro uomo e ha due bambini (chissà cosa avrà pensato quando li ha abbracciati per la prima volta?). Si sente in pericolo e teme per la sua vita. Dice "Ho ragioni di temere per la mia vita. Odio la posta. Non voglio essere considerata una sorta di ‘massacra-bambini’ o apparire in qualche poster per fondamentalisti contro l’aborto"

Charmaine Yoest, presidente di un’associazione pro-life negli Usa al quotidiano Daily Mail ha riferito "Il libro è una conferma di quanto andiamo dicendo da una vita: l’aborto è una parte triste nella storia della vita di ogni donna"

Aborto per scelta o per necessità: purtroppo può capitare. E non si può mettere al rogo chi opta per una scelta del genere perché nella maggioranza dei casi non se ne conoscono del tutto le reali motivazioni. Ma in questo caso lasciare che una donna ripeta la stessa azione per 17 volte mi sembra assurdo. Possibile che i medici abbiano sempre taciuto?

“La mia vita può riassumersi nell’estrema esperienza umana dell’aborto”. Inizia così il memoir di Irene Vilar, che già dal titolo – Scritto col mio sangue – rievoca una controversa storia di dolore e di violenza.
La vicenda è di quelle che toglie il fiato: Irene è una studentessa ancora minorenne quando si innamora di un professore di mezza età, col quale inizia una turbolenta relazione. L’avventura sembrerebbe virare verso un copione genere Pigmalione di George Bernard Shaw, ma non è così.

Il lui in questione, infatti, non ha nessuna intenzione di volere figli; lei, del resto, accetta supina la sua volontà. Particolare di non poco conto, Irene in quindici anni resta incinta quindici volte, e tutte e quindici volte abortisce.

“Incredibilmente sincero” lo ha definito il Washington Post, ed in effetti seguire per più di duecentocinquanta pagine il racconto di Vilar non è un’impresa da poco.

Il suo viaggio esistenziale, che parte da una drammatica esperienza familiare con una madre suicida “sterilizzata” a sua insaputa dopo tre gravidanze e due fratelli tossicodipendenti, è uno schiaffo al politicamente corretto e alla sociologia di maniera che sembra impazzare di questi tempi.

Vilar chiama le cose con il proprio nome, svicolando dal solito birignao e senza peraltro temere alcuna condanna sociale. E la sua testimonianza finisce presto col tradursi nell’elaborazione di un lutto quasi impossibile da superare.


(blog.panorama.)

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