Poesia,
dal greco poiesis con il significato di ‘creazione’.
Prediligere
questa forma d’arte, oggi sembrerà strano, in un mondo dove imperano il
liberismo e l’individualismo che ha ucciso il personalismo che mette al centro
la persona nella sua essenza.
Parlare
di poesia, scrivere poesia , nel nostro tempo è considerato, da questo tipo di società, effimero e
onirico. La poesia è ritenuta ‘inutile’.
Oggi,
a nostro parere, viviamo un secondo medioevo, il più oscurantista dei periodi
storici vissuti dall’uomo dove la dignità della ‘persona’ era calpestata da una visione del mondo che privilegiava
l’avere, il possesso annientando l’essere.
Si
capisce bene che in questo tipo di società, ‘scavare’ nelle profondità
dell’essere per carpire il vero senso della vita risulta non solo inutile ma
addirittura limitante per l’uomo di oggi che aspira alla sua realizzazione
guardando al possesso e al potere.
Cos’è
stata nei secoli la poesia? E cosa dovrebbe essere ancora oggi?
Partendo
da un dato condiviso da vari filoni culturali e religiosi ci soffermiamo su
un’affermazione che deve stare alla base di un ‘quasi credo’: La parola crea!
Già nella categoria
biblica, che è quella a noi più vicina essendo d’aria culturale cristiana, nel
racconto della creazione viene proprio usata l’espressione , <<E dio
disse>> per esplicitare l’atto creativo di Dio: Deus dixit fiat lux, et
lux fuit (Dio disse sia fatta luce, e luce fu). Allo stesso modo la parola di
Dio può essere
‘distruttrice’ di tutto ciò che ostacola la realizzazione piena della sua
creazione nel tempo.
Chi
è quindi il poeta?
Ampliando
la prospettiva da cui partire e cercando di capire come i grandi hanno considerato il sapere nella storia conosciuta
dell’uomo partiamo da una locuzione socratica che dice: <<Io so di non
sapere!>>
Nell’apologia
di Socrate, Platone eviscera l’argomento mettendo in risalto proprio la
convinzione certissima di un uomo di ‘lettere’ che è giunto ad una conclusione
che sembra essere in contrasto con la stessa arte socratica della retorica, e
cioè quell’arte che ha come scopo la persuasione dell’interlocutore intesa come
approvazione ed accettazione della tesi dell’oratore. Il lettore si chiederà
cosa c’entra tutto ciò con la poesia, con il poeta.
Noi crediamo che se è
vero che il poeta è, e deve essere, colui che, essendo sensibilmente più portato
a compenetrare la realtà delle cose, è portatore di conoscenza e di
consapevolezza dell’animo umano, allora è anche vero che debba partire dallo
svuotamento di sé. Il poeta deve cercare di liberarsi da ogni incrostazione
personale e sociale che lo zavorra a una conoscenza deviata dell’intelletto.
Solo chi ‘sa di non sapere’ può continuamente essere aperto alla conoscenza.
Solo chi ‘accetta’ di non sapere
può addivenire a una sempre maggiore conoscenza della realtà avendo
convinzione, però, di non poter mai raggiungere la pienezza della gnosi.
Il
grande Rimbaud, che si scagliò violentemente contro quel mondo culturale che
pensava di aver raggiunto ogni certezza dello scibile umano, nella sua “Lettera
al veggente” scrive: <<Il primo
studio dell’uomo che voglia diventare poeta è la conoscenza di sé, intera; egli
cerca la sua anima, l’indaga, la tenta, l’apprende. Dal momento che la conosce,
deve coltivarla>>.
Nella
stessa lettera tuona contro quei poeti e letterati che ‘dall’alto delle loro
cattedre’ credono di distribuire sapienza ribellandosi alla saccente prosopopea
di un filone culturale attaccato a certi schemi che imbrigliano l’animo di chi
vuole, invece, spogliarsi d’ogni sapere per arrivare a ciò che Rimbud chiama l’eternità.
Il poeta può arrivare ad
essere veggente, dice Rimbaud, solo
attraverso il totale spogliamento del proprio essere. Nessuna certezza serve
per indagare e conoscere il proprio animo. Nessun perbenismo né dogma imposti,
nessuna morale precostituita se non quella dettata dalla propria coscienza di
uomo libero. Gli farà eco il famoso pittore francese Gustave Cuorbet,
riconosciuto quasi unanimemente leader del Realismo, scrivendo: << Ho
quasi cinquantenni ed ho sempre vissuto libero; lasciatemi finire libero la mia
vita; quando sarò morto voglio che questo si dica di me: Non ha fatto parte di
alcuna scuola, di alcuna chiesa, di alcuna istituzione, di alcuna accademia e men
che meno di alcun sistema: L’unica cosa a cui è appartenuto è stata la
libertà>>.
E
per noi che scriviamo, che veniamo definiti poeti pur non considerandoci tali,
cosìè la poesia?
È
tutto ciò che abbiamo letto e scritto, è l’essenza stessa della nostra
esistenza, è disperazione e allo stesso tempo gioia, è maledizione e
benedizione , è vivere dentro a un mondo che rifiutiamo e assumerlo in ogni sua
parte, anche nelle nefandezze, è gridare il silenzio e sopprimere l’urlo, è la
ricerca di noi dentro noi stessi e ancora dentro il mondo che ci contiene, è
raggiungere il profondo rimanendo in superficie, è la certezza di nessuna
certezza.
Francesco Romano
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