7 maggio 2014

L'ARCHITETTURA PER LA MEMORIA

L'architettura oggi spesso è il risultato di gusti personali, di mode, di esigenze secondarie o di poteri istituzionali. Ma essa, in epoche recenti, è stata anche una testimonianza di messaggi e valori non solo fini a se stessi. Questo è il caso del Museo Ebraico di Berlino (Jüdisches Museum Berlin), costruito nel 2001 ad opera dell'architetto polacco Daniel Libeskind. Questo edificio rappresenta un monumento alla storia sociale, politica e culturale degli ebrei in Germania.



Il Museo, sintesi architettonica dell’identità culturale di un popolo, si pone anche come tangibile espressione della presenza e del ruolo degli ebrei in Germania, ma oltre tutto questo è un invito alla riconciliazione, fisica e spirituale, della città di Berlino con l’Olocausto. 
Il Museo, ha spiegato Libeskind, “descrive e integra, per la prima volta nella Germania del dopoguerra, la storia degli ebrei del Paese, le ripercussioni dell’Olocausto e il senso di disorientamento spirituale connesso a tutto ciò".
Forse potrebbe non essere attrattivo se confrontato con le maestose e tecnologiche architetture che ormai oggi affiorano nei posti più svariati del pianeta, ma per la sua forza e il suo simbolismo si pone sicuramente tra i capolavori dell'architettura. Esso, infatti, si distingue notevolmente dalla tipologia solita dei musei: non risponde a nessun criterio di funzionalità poiché la linea guida seguita per la realizzazione del progetto è stata quella di raccontare la storia degli ebrei, in particolare degli ebrei in Germania. L'edificio stesso può essere considerato un'opera d'arte, poiché mescola architettura e scultura. Un'architettura nata per ricordare, che rappresenta quello che è stato il genocidio di 6 milioni di persone, sottoposte a violazioni di diritti e abusi di ogni genere.

La “prima pietra” per il museo attuale fu posata nel 1992 dopo che il progetto di Daniel Libeskind vinse il concorso, avviato nel 1989 (data che coincide con il crollo del muro di Berlino), per la realizzazione di un dipartimento ebraico che ampliasse l'adiacente Berlin Museum; quest'ultimo è un edificio ottocentesco-neoclassico a forma di C, che durante il nazismo venne in parte distrutto, anche se gli ebrei riuscirono a salvarne una piccola parte. Esso viene ricostruito nel 1965 esattamente com'era prima della distruzione da parte dei nazisti. 

Ma si pensò comunque di ampliare il museo e Libeskind, appunto, si aggiudicò l'incarico.
L'edificio, visto dall'alto, ha la forma di una linea a zig-zag e per questa ragione è stato soprannominato "blitz", che in tedesco significa "fulmine". La forma dell'edificio ricorda una stella di David decomposta e destrutturata. Esso è interamente ricoperto da lastre di zinco e le facciate sono attraversate da finestre molto sottili e allungate, più simili a squarci o ferite che a vere e proprie finestre, disposte in modo casuale.
Libeskind ha battezzato il suo progetto "between the lines" (tra le linee) e nei punti in cui due linee si intersecano si formano zone vuote, o "voids", che attraversano l’intero museo. L'architetto sostiene che la parte più importante dell'edificio è quella che si trova tra i vuoti; si determinano infatti degli spazi cavi (sono gli spazi di maggiore tensione) nati dall'intento di costruire il museo attorno ai vuoti. Egli, infatti. lavora sui vuoti perchè la cultura ebraica si è sviluppata dal vuoto di altre culture; spesso si è sviluppata per colpa di vuoti che altre culture hanno determinato con la violenza. I vuoti sono determinati da tagli che scandiscono a caso la facciata, come se fossero stati fatti da qualcuno in preda alla rabbia. Inoltre Libeskind sceglie di rivestire l'edificio con lamiere in acciaio che ricordano quelle dei treni usate per trasportare gli ebrei.
Tre passaggi sotterranei, o “assi”, collegano l’edificio nuovo con quello antico, barocco (questo simboleggia che la storia ebraica e quella tedesca sono fortemente collegate). Il primo asse porta alla “Scala della continuità”, ovvero al museo vero e proprio e alla mostra permanente; il secondo conduce al “Giardino della Diaspora e dell’Emigrazione”; il terzo (unico dei tre a non avere sbocco) al “Vuoto dell’Olocausto”, simbolo dell’assenza dei cittadini ebrei di Berlino.
A terra lo spazio è suddiviso in zone separate, tagliate lungo un’asse est-ovest, ciascuna delle quali può essere raggiunta soltanto percorrendo appositi passaggi.
L'"Asse della continuità" è il percorso che attraversa lo "zig-zag", si interra e procede dalle zone più basse a quelle più alte, quasi come se fosse un percorso pericoloso (ma è l'unico che permette di raggiungere il piano superiore!). Arrivati al piano superiore sembra che ci sia un'istallazione di treni che ricostruiscono il suono di quando trasportavano gli ebrei; ma in realtà ci si rende conto, arrivati in uno spazio alto e angusto, che questo suono proviene da dischi che ci si trova sotto i piedi, accostati l'uno sull'altro. Essi sono opere dell’artista israeliano Menashe Kadishman, dedicata non soltanto alle vittime della Shoah, ma a tutte le vittime di guerra e violenze. I visitatori sono invitati a camminare sui volti e ad ascoltare il fragore prodotto dalle lastre di metallo che sbattono l'una contro l'altra e contro le persone che passano. Il frastuono e l'angoscia per tutti quei morti fanno desiderare di uscire al più presto dalla sala.Con l'"Asse dell'Esilio" si ritorna all'aperto e si accede al "Giardino dell'Esilio". Esso è costituito da una superficie quadrata circondata da 49 colonne di cemento, in modo tale che dall'esterno non si possa vedere nulla. Il numero delle colonne è simbolico, infatti serve a ricordare l'anno di nascita dello stato d'Israele, il 1948; un'altra colonna, quella centrale, rappresenta invece Berlino ed è riempita all'interno di terreno proveniente da Gerusalemme. Sulla sommità delle colonne sono stati piantati alberi di olivo. Essi sono il simbolo della pace e della speranza di un ritorno in patria, ma simboleggiano anche la forza  che gli alberi riescono ad avere nel mettere radici anche in spazi così impervi come la cavità di un pilastro. Libeskind ha voluto fare in modo che il visitatore provasse la stessa sensazione di straniamento e disagio che hanno provato gli ebrei esiliati, e per questo motivo ha costruito il piano di calpestio inclinato di sei gradi, di modo che camminando tra i pilastri si provi la sensazione di una mancanza di equilibrio.
L'ultimo asse, invece, conduce alla "Torre dell'Olocausto", che non ha una funzione specifica; non contiene nulla; contiene aria, umidità, penombra; è
 illuminata solo dalla luce indiretta del giorno che penetra da una stretta feritoia posta in alto. Impossibile vedere fuori e capire dove si è; attutiti si sentono i rumori provenienti dall'esterno. Evidente e palpabile il significato simbolico che vuole ricreare la condizione degli ebrei deportati che non sapevano in quale luogo si trovavano e non potevano avere notizie. A mezza altezza è situata una scaletta metallica di servizio con una porticina che porta in un pianerottolo, messa lì a posta per provocare la sensazione di non poter mai raggiungere la via d'uscita.

Lidia Battaglia

Nessun commento:

Posta un commento

Newsletter di Postillare


iscriviti cancellati